Mario Valle Web

Le tecnologie digitali in famiglia: nemiche o alleate?

Quando si parla di tecnologie digitali e dell’effetto di tablet, smartphone e computer sulla crescita dei nostri figli, noi genitori oscilliamo fra paura e conseguenti divieti o accettazione incondizionata come “preparazione per il futuro”. Un futuro che però facciamo fatica a immaginare. Perché allora non chiedere aiuto?

In questo libro, da genitore qual sono, mi faccio aiutare dalla mia esperienza professionale in mezzo a supercomputer e tecnologie che stanno plasmando il nostro futuro e da una collega scienziata, Maria Montessori che, pur vissuta in altra epoca, ammirava le tecnologie del suo tempo e soprattutto conosceva la mente dei bambini e dei ragazzi dopo aver lavorato con loro per cinquant’anni.


Buongiorno! Avrei voluto incontrarvi di persona, ma le attuali emergenze non lo permettono. Sarà per un’altra volta, spero.

Una scena sempre più frequente, vero? Genitori che danno in mano tablet e smartphone a cuccioli che nemmeno sanno parlare. Piccoli che sanno usare il tablet ancor prima di sapersi grattare un orecchio. D’altro canto …

… i nostri bambini e ragazzi, i nostri “abitanti del futuro”, sono immersi nella tecnologia, qualsiasi cosa facciamo per limitarla.

Anch’io, lo confesso, ho fatto così in altri anni con mio figlio. Del resto può essere comprensibile, visto che …

… lavoro al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico di Lugano …

… in mezzo ad alcuni dei supercomputer più potenti al mondo …

… e dove lavoro con uno speciale tipo di bambini: gli scienziati che sono curiosi e inquisitivi come i bambini.

A volte addirittura portavo mio figlio in ufficio per “aiutarmi”. Mi sembrava, insomma, normale immergere i bambini nella tecnologia fin da piccoli.

Poi, parlando con i miei colleghi genitori e di come nelle loro famiglie gestiscono le tecnologie digitali in mano ai figli, ho trovato che seguono differenti strategie. C’è chi le vieta del tutto, chi lascia fare, chi è orgoglioso delle supposte attitudini tecnologiche dei figli e chi teme che i figli perdano qualche opportunità fondamentale per il loro futuro se non ne hanno accesso. Forse la motivazione più razionale è quella di chi …

… reputa necessario immergerli nella tecnologia per “prepararli al futuro”. Peccato che il futuro celi un paradosso.

Spendiamo immani sforzi per essere pronti, noi e i nostri ragazzi, per un futuro che comunque fatichiamo a immaginare. L’assurdo è che questo impegno convive con una scuola che funziona come se il mondo e gli allievi dovessero rimanere sempre come sono oggi, ma di questo parleremo un’altra volta.

Fatichiamo a immaginare come sarà il mondo quando i nostri ragazzi usciranno dal sistema dell’istruzione. I nati quest’anno (2020) termineranno la scuola dell’obbligo fra 14 anni nel 2034 e si ritroveranno in un mondo molto diverso dal nostro popolato da 8 miliardi di persone, con la produzione di petrolio che inizia a ridursi, dove bisognerà convivere con il riscaldamento globale e dove l’acqua potabile sarà sempre più preziosa. Un mondo dove ci saranno professioni che oggi nemmeno immaginiamo e per le quali l’ufficio come concepito oggi non avrà più senso e dove le macchine ci avranno sostituito in un crescente numero di compiti. Del resto fare previsioni sul futuro non è mai stato facile.

In Blade Runner, film di fantascienza ormai diventato di culto, girano macchine volanti, intelligenze artificiali e cyborg, ma il protagonista per telefonare a Rachael, la replicante, usa una cabina telefonica. Il regista non riesce proprio a immaginare i telefonini. Poi non mancano esempi …

… di previsioni tecnologiche totalmente sballate come queste. Allora, che senso ha la difesa dell’accesso alla tecnologia come “preparazione per il futuro”?

Forse la soluzione del dilemma è quella proposta da Alan Kay: “Il modo migliore per predire il futuro è inventarlo”, cosa che ha fatto in prima persona concependo, tra l’altro, i laptop e le interfacce grafiche moderne.

La cosa strana è che i migliori futurologi sono anche i meno ascoltati. Sono i bambini che a volte hanno delle intuizioni sul futuro che non sono messe a tacere da quello che crediamo di sapere sulla realtà, come noi adulti.

Lo hanno fatto, invece, con risposte degne dei migliori futurologi, nello studio Robots@School che ha chiesto a bambini di età compresa tra gli otto e i dodici anni di immaginare una situazione in cui i robot fossero parte integrante della quotidianità. Anche se alcuni bambini hanno assegnato ai robot sembianze da supereroi o comunque fantascientifiche, la maggior parte li ha immaginati come “compagni umanoidi” con cui potersi identificare e con cui poter fare amicizia. Oltre a mostrarci il futuro, quest’aspetto ci svela come i bambini e i ragazzi, a differenza di noi adulti, siano molto più interessati a cosa la tecnologia può fare “con loro” piuttosto che “per loro”. Teniamolo presente. Teniamo però ben presente che il bambino dovremmo ascoltarlo sempre, non solo in occasione di studi strutturati come questo.

Noi adulti invece consideriamo spesso il computer come carta e penna, solo più veloce, o come un accessorio necessario per l’ufficio che, tra l’altro, non è cambiato significativamente dagli anni sessanta.

Sono gli innovatori come questi bambini futurologi quelli che creeranno il futuro e chi di voi è insegnante li ha di fronte, a scuola e noi genitori attorno alla tavola da pranzo.

Ecco, quello che succede in famiglia avrà invece un impatto forte sulle loro capacità di innovare. Questo articolo, intitolato “Come pensano gli innovatori?” lo scrive chiaramente: “Crediamo anche che gli imprenditori più innovativi siano stati molto fortunati a essere cresciuti in un’atmosfera dove il porre domande era incoraggiato”. Vediamo qualche esempio.

Si citano spesso i fondatori di Google come esempio di innovatori che hanno rivoluzionato il mondo. Il bello è che non si citano praticamente mai le loro capacità tecnologiche, invece si dà risalto a come …

… abbiano imparato a essere auto-motivati, mettendo in discussione ciò che accade nel mondo, facendo le cose in un modo un po’ diverso. Loro due non sono però gli unici innovatori usciti da scuole Montessori. Da queste scuole è uscita gente che non solo ha trovato lavoro, ma ne ha pure creati di nuovi. Motivo in più per riconoscere le meravigliose capacità del bambino e avere fiducia in lui. Oppure…

… il pioniere dei videogiochi Will Wright, per cui Montessori fu un “amplificatore d’immaginazione” che lo ha preparato per la creazione di The Sims, SimCity, Spore e Super Mario Brothers. “SimCity nasce direttamente da Montessori… Si tratta di puro apprendimento al tuo proprio ritmo”. E anche il famoso …

… il pioniere dei videogiochi Will Wright, per cui Montessori fu un “amplificatore d’immaginazione” che lo ha preparato per la creazione di The Sims, SimCity, Spore e Super Mario Brothers. “SimCity nasce direttamente da Montessori… Si tratta di puro apprendimento al tuo proprio ritmo”.

… Infine Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, che vi ha riversato quanto appreso alla scuola Montessori. Del resto lo riconosce anche …

… l’articolo che citavo: ”Un certo numero di imprenditori innovativi hanno anche frequentato scuole Montessori, dove hanno imparato a seguire la loro curiosità”.

Anch’io ho iscritto mio figlio alla scuola Montessori. Iscrizione sulla fiducia, devo dire, perché a quel tempo non conoscevo nulla di Montessori. L’obiettivo non era fare di mio figlio un genio, come alcuni, pochi, genitori pensano quando scelgono di iscrivere lì loro figlio.

Tuttavia, sappiamo anche che possiamo dare ai bambini un ambiente educativo che faccia crescere le loro potenzialità anche fino al livello di un genio, se il bambino ha questa capacità intrinseca. In una scuola Montessori, ho visto esattamente questo. Nessuna meraviglia che Maria Montessori fosse una scienziata.

Allora, che cosa serve ai ragazzi per affrontare il futuro? O meglio, per inventare il loro futuro?

Per prima cosa dobbiamo sgombrare il campo da una visione dell’educazione scolastica come un processo lineare di preparazione al futuro, come ricordava il compianto Ken Robinson, e renderci conto di quanto valga la formazione globale della persona rispetto ai voti o ai percorsi scolastici. In altri termini dovremmo pretendere una scuola che educhi e non che addestri alla tecnologia o quant’altro.

Non penso, quindi, …

…che nel futuro serva la persona che sa tutto. Tra l’altro nel mio campo la conoscenza tecnica diviene obsoleta nel giro di sei mesi. Questi “tuttologi”, come dice Hoffer, …

… saranno ben attrezzati per affrontare un mondo che non esiste più. La Linea Maginot era perfettamente preparata per un futuro che non si è verificato, anzi, sappiamo tutti come è andata a finire. Un mondo in cui gli analfabeti…

…non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non sapranno imparare, disimparare e imparare di nuovo, come grida Alvin Toffler nel suo libro “Lo Shock del Futuro”. Un bel po’ di anni prima…

…la Dottoressa sosteneva esattamente lo stesso.

Al riguardo ho osservato spesso i miei colleghi. Ammetto che è un campione piuttosto piccolo e peculiare, ma può essere un assaggio di quelle caratteristiche che la scuola e l’educazione dovrebbero fornire. Innanzitutto non vedo attorno a me geni o furiosi matematici ma persone normali provenienti da svariate culture — arriviamo da una ventina di nazioni differenti — che hanno sempre voglia di imparare e non pretendono di sapere già tutto, sanno dove e come trovare le informazioni di cui hanno bisogno, sono capaci di navigare mentalmente architetture complesse e interagiscono, collaborano e contribuiscono alle comunità di utenti con cui operano. Alcuni poi vengono da percorsi scolastici assolutamente alieni alla tecnologia, ma con una passione per il mondo dei computer che li ha fatti arrivare qui.

E allora ci calza a pennello questo titolo che ho trovato qualche tempo fa: “Non abbiamo bisogno di insegnare ai nostri bambini come programmare, abbiamo bisogno di insegnar loro come sognare”. Un informatico che non sa immaginare la struttura del programma su cui sta lavorando, che non sa vedere le implicazioni del suo lavoro, rimarrà un programmatore, un operaio del software. Vogliamo formare della manovalanza informatica o persone che inventino la nuova “killer app”?

Torniamo un momento alla scuola di mio figlio. Avevo osservato un fenomeno a prima vista inspiegabile. A scuola c’era un computer, ma i ragazzini non facevano la fila per utilizzarlo. La fila era invece davanti …

… a questa vecchia macchina da scrivere meccanica. Perché? Forse perché rispondeva ai loro bisogni interiori in quel momento? Chi senza capire critica il metodo Montessori dice che è vecchio e sorpassato. Non è vero, ma cerchiamo di capire che cosa …

… Maria Montessori pensasse della tecnologia del suo tempo.

Innanzitutto notiamo che Maria Montessori non era estranea al mondo scientifico e tecnologico di quegli anni, come testimonia il suo curriculum scolastico. Infatti, dal 1883 frequentò a Roma la Regia Scuola Tecnica “M. Buonarroti” dove si diplomò nel 1886. Per continuare gli studi di matematica e di scienze, passò al Regio Istituto Tecnico “L. da Vinci” e, dopo essersi diplomata nell’autunno del 1890, si iscrisse alla “Facoltà di scienze fisiche, naturali e matematiche” dell’Università di Roma, dove conseguì la relativa licenza.

Quando divenne nota a livello internazionale, Maria Montessori era tenuta in alta considerazione dai principali scienziati e tecnologi del suo tempo. Fra i suoi sostenitori troviamo nientemeno che Thomas Alva Edison, probabilmente il più celebre tecnologo e imprenditore dell’epoca e…

… Alexander Graham Bell, che nel 1913 con sua moglie Mabel fondò la “Montessori Educational Association” nella loro casa a Washington, DC.

C’è un testo di Maria Montessori del 1947 intitolato “Introduction on the Use of Mechanical Aids” che probabilmente scrisse come prefazione a un libro indiano sulle tecnologie nella scuola. È riportato in un numero speciale dell’AMI Journal del 2015. L’introduzione ci dà un’idea di come Montessori considerasse la tecnologia: “Montessori era affascinata dalla tecnologia del suo tempo, che assolutamente la incantava e dove vedeva opportunità per unire il nostro mondo e un mezzo attraverso il quale una società mondiale interconnessa avrebbe potuto dare sostegno agli altri, e così far avanzare il genere umano”. Nel testo la Dottoressa rimarca …

… l’importanza che la tecnologia avrà nelle scuole, ma riafferma con forza che il primato, senza eccezioni, deve essere dato allo sviluppo del bambino completo e osserva come i mezzi tecnologici non sempre siano all’altezza del compito. La stessa accoppiata la troviamo nel suo libro “Dall’infanzia all’adolescenza” dove scrive: “La civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi”.

Da dove possiamo cominciare? Cominciamo da noi stessi, dal nostro rapporto con la tecnologia.

Una scena del genere, un papà che ogni minuto controlla la posta sullo smartphone, oppure un genitore perso in Facebook, che messaggio trasmettono? Per i nostri bambini, …

… se qualcosa lo fanno papa e mamma, allora è qualcosa di buono. Se stiamo incollati allo smartphone, anche loro lo saranno. Del resto l’imitazione è la loro più potente strategia di apprendimento, come lo è …

… per i cuccioli degli animali.

Poniamoci ora una domanda fondamentale: il cervello dei bambini d’oggi è diverso da quello dei bambini che studiava Maria Montessori? Sono un’evoluzione della nostra specie oppure no?

Renilde Montessori, nipote di Maria, in un’intervista del 1999 disse: “È molto difficile spiegare ai genitori che la specie umana è immutata da migliaia di anni, e che il bambino universale non cambia, malgrado i cambiamenti esteriori”. La scienza lo conferma. Il cervello umano non ha avuto il tempo di evolversi nel brevissimo arco di tempo in cui abbiamo potuto affidarci alle tecnologie. Anche la scrittura, una tecnologia di tutto rispetto, è avvenuta in un battito di ciglia su scala evolutiva.

Ma è altrettanto certo che con l’esercizio il cervello cambia. Le aree predisposte al controllo delle dita di un pianista si ingrandiscono man mano che si esercita. O come in questo studio che dimostra come anche la materia bianca, le fibre avvolte nella mielina, si espande con l’esercizio. È pure ovvio che alla stessa maniera il cervello umano viene quotidianamente modificato dall’uso di smartphone e tablet, in particolare dal rapido e frequente movimento delle dita sullo schermo. Dacché è lo stesso tipo di modifica del cervello dovuta all’esercizio, non lo definirei un effetto legato alla tecnologia e nemmeno un’evoluzione del cervello.

Un segno di questi cambiamenti nel cervello è certamente l’effetto Flynn, l’aumento del quoziente intellettivo (QI) medio della popolazione, osservato da James Flynn nel corso degli anni, con una crescita attorno ai tre punti per ogni decennio. L’effetto deriva molto probabilmente da una maggiore capacità di risolvere problemi logici e astratti, frequenti nell’ambiente sociale e culturale odierno.

Tutto bene, quindi? Non proprio, perché…

…dal 1990 l’effetto si sta invertendo, come ha scoperto uno studio del 2008. Ancor peggio, a declinare non sono solo le capacità intellettive, è anche …

… la creatività (almeno negli Stati Uniti).

L’ovvia conclusione sembra inevitabile: “Nel processo evolutivo qualche meccanismo deve essersi inceppato.”…

…Visti questi effetti del mondo tecnologico sulla mente umana, è facile per i media sparare titoli a effetto, come “La demenza digitale” o “Google ci sta rendendo stupidi?” oppure dire tutto e il contrario di tutto sulle conseguenze o sui benefici della tecnologia a scuola, mentre ignorano le ricerche scientifiche più serie. La realtà è che gli scienziati non sanno bene quali siano gli effetti a lungo termine delle tecnologie sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo e sulla costruzione della propria identità. Problema complicato dal fatto che la “tecnologia” non è un’entità unica e quindi è difficile pensare che abbia un unico effetto.

Allora è meglio se torniamo a considerare …

… i rapporti tra mente e tecnologia. Cominciamo dalla più ovvia: il movimento.

“Hanno bisogno di sfogarsi” sentenzia la nonna, “ci fanno diventare pazzi” si lamenta il genitore, “mi sgolo e loro no, non stanno mai fermi” si sfoga la maestra. Ma è proprio un’attività così reprensibile? No, assolutamente no. Il movimento è parte integrante delle nostre capacità cognitive e base dello sviluppo della mente.

Ed è alla base anche del genio di un Premio Nobel. Sebbene il lavoro computazionale e la scienza siano per lo più attività sedentarie e intellettuali, sono anche processi fisici, come riporta James Gleick riferendosi al modo di pensare di Richard Feynman. Quindi movimento fisico e intelletto sono strettamente legati.

In campo neuroscientifico, prima di accettare tutto questo, ci sono voluti molti studi che hanno rivalutato la funzione e l’importanza delle aree motorie nella fisiologia del cervello. Studi che hanno dimostrato come “lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende”, come sintetizza nel libro “So quel che fai” Giacomo Rizzolatti, lo scopritore dei neuroni specchio, di cui parleremo fra poco.

Assieme a lui molti scienziati hanno collegato lo sviluppo cerebrale a quello motorio: Adele Diamond per cui “lo sviluppo motorio e lo sviluppo cognitivo possono essere fondamentalmente interconnessi”, Cotterill che dimostra come “la cognizione è inestricabilmente collegata al movimento, sia in forma visibile che nascosta”, Koziol e Budding per i quali “la cognizione è realmente solo un’estensione del sistema motorio”.

Maria Montessori aveva capito la stretta connessione del movimento con lo sviluppo della mente esattamente cinquant’anni prima di Rizzolatti. Attenzione però! Non stiamo parlando di un qualsiasi movimento, né della classica ora di educazione fisica. Perché il movimento nel Montessori ha carattere autonomo, ma non è mai fine a sé stesso, perché sviluppa la mente e il corpo grazie ad attività finalizzate che impegnano l’intera persona in un lavoro costruttivo.

E qui dov’è il movimento? Ci sarà pure tanta tecnologia, ma il movimento essenziale allo sviluppo manca totalmente. Il movimento ha anche un’altra strana connessione col pensiero.

Poco tempo fa è uscito uno studio sulla prestigiosa rivista Science che mostra come utilizziamo gli stessi meccanismi del cervello – Place e Grid cells – che utilizziamo per conoscere dove ci troviamo in un ambiente per creare delle mappe dei nuovi concetti quando li acquisiamo e per muoversi fra di loro quando pensiamo.

Anche la memoria ha un inaspettato collegamento con il movimento.

Vi ricordate il metodo mnemonico dei loci? Cicerone è stato uno dei più celebri utilizzatori di questa tecnica. Associava alle stanze di un palazzo le varie parti dei suoi discorsi e poi percorreva il palazzo nella sua mente quando doveva esporlo. Così fa ancor oggi l’atleta della memoria Nelson Dellis per ricordare l’ordine casuale di un mazzo di carte.

Manfred Spitzer, nel suo libro dal titolo poco rassicurante, cita i tassisti londinesi che devono imparare a memoria le 26000 vie di Londra e hanno l’ippocampo molto ingrandito come esempio dell’importanza di imparare a memoria e non affidarsi ai motori di ricerca. Quello che non dice, però, è che questi tassisti hanno minori capacità di manipolare modelli in 3D nella loro mente. L’altra cosa che non dice è che oggi utilizziamo una memoria che è sempre esistita: …

… la memoria transattiva. Questa è una memoria che non ha a che fare con le informazioni in sé, ma con il sapere come e dove trovarle. Non è però una memoria nata con la tecnologia perché da sempre, oltre che aiutandoci con agende e Post-it, usiamo anche le altre persone come archivi di memoria transattiva. Chiediamo al collega anziché cercare la risposta sulla rete aziendale, o ci appoggiamo al coniuge per ricordare dove abbiamo parcheggiato la macchina o dove è conservata quella camicia così elegante. Lo stesso succede per quelle informazioni, come il tempo di cottura della pasta, di cui non avremo mai bisogno, a meno di non avere la scatola tra le mani quando stiamo cucinando gli spaghetti.

Saltiamo ora agli oggetti concreti. Lo psicologo statunitense James Gibson, in un suo libro del 1979, ha introdotto il termine affordance per identificare la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo. L’esempio più evidente è il manico di una brocca che ci invita a prenderla proprio da lì senza bisogno di istruzioni o di allenamento. Insomma, le affordance sono una specie di “invito ad agire”. Un invito che ha una base neuronale, perché vedere un oggetto evoca automaticamente che cosa potremmo fare con esso attraverso l’attivazione di una particolare classe di neuroni, i cosiddetti neuroni canonici. Questi neuroni rispondono alla semplice osservazione di un oggetto, indipendentemente se ci sia o no l’intenzione di agire, per esempio per afferrarlo.

Così fanno i materiali Montessori che offrono chiarissime affordance. Montessori le chiamava la “voce delle cose” e c’era arrivata cento anni prima di Gibson. Tanti oggetti di uso quotidiano ci offrono affordance ben chiare.

Ma quali affordance offre un tablet?

Don Norman, esperto di interazione uomo-macchina, ci fa osservare che molti dei modi con cui interagiamo con la tecnologia informatica non sono affordance, sono convenzioni apprese. Il tablet o lo schermo del computer non ci invitano ad agire, semmai ci invitano a considerare una delle convenzioni, come per esempio il cursore che cambia forma quando si è su qualcosa che si può cliccare o l’icona della lente d’ingrandimento che ci suggerisce di cercare.

Anche questo mi ha convinto una volta di più che l’intuizione di Maria Montessori riguardo al manipolare oggetti fisici fosse in anticipo sui tempi. Mi riferisco alle ricerche sulle interfacce uomo-macchina, dove si studiano le cosiddette interfacce tangibili, quelle in cui, per interagire con il computer, si spostano degli oggetti concreti invece di muovere delle rappresentazioni astratte nascoste dietro a uno schermo. James Patten in una presentazione TED dice: “Se ci pensate, sembra molto logico che l’uso di oggetti fisici possa favorire un utilizzo più semplice di un’interfaccia. Le nostre mani e la nostra mente sono ottimizzate per pensare e interagire con oggetti tangibili”. Come non essere d’accordo?

Qui, in assenza di tecnologia, c’è movimento, c’è l’uso delle mani e c’è un altro effetto interessante evidenziato in un esperimento psicologico di Shepard e Metzler.

Questi psicologi hanno dimostrato che noi manipoliamo le rappresentazioni mentali come se fossero oggetti fisici. Come se ne sono accorti? In un quiz come quello qui riportato, dove bisogna trovare a quale oggetto della riga in basso corrisponde quello in alto, il tempo impiegato per stabilire se una coppia è formata dallo stesso oggetto è proporzionale all’angolo che c’è fra i due oggetti. (Nel problema indicato, alla configurazione in alto corrisponde l’oggetto B).

Manipolare strutture con le mani ha anche un altro effetto analizzato …

… in uno studio che lega la comprensione matematica all’abilità nel copiare e ricostruire strutture LEGO. Perché? Perché anche un compito semplice come questo implica la capacità di manipolare strutture nella mente. E la matematica è la scienza delle strutture e degli schemi, come recita una definizione moderna.

Passiamo a un altro aspetto. In una scuola Montessori i bambini si muovono. Quello che vedete qui è abbastanza comune. Invece, in una scuola tradizionale l’insegnante avrebbe sicuramente tuonato: “Torna al tuo banco! Stai perdendo tempo e disturbi gli altri!” Ma la bambina che sta a guardare qui sta lavorando sodo, come ci dice una scoperta neurofisiologica degli anni ‘90, …

… quella dei neuroni specchio. Questi neuroni sono neuroni motori che si attivano quando compiamo un’azione, ma anche quando guardiamo la stessa azione compiuta da altri. Ciò significa che quando guardiamo un’azione stiamo davvero simulando la stessa azione internamente.

Per questo, in un gruppo multi-età come quello che vediamo qui, il bambino vestito di giallo sta davvero lavorando e apprendendo già solo muovendosi fra gli altri bambini e imitandoli internamente.

Con certa tecnologia, dove sono i gesti da imitare? Ridurli a tap e swipe toglie al bambino una poderosa forma di apprendimento.

Sul fatto che si debba introdurre la tecnologia ai più giovani ci sono pochi dubbi; se ci fosse bisogno di una conferma, già nel 1947 Maria Montessori scriveva: “Credo tuttavia che l’introduzione di ausili meccanici diventerà una necessità generale nelle scuole del futuro”. Non tanto per potenziare l’apprendimento, ma perché i bambini sono sommersi dalla tecnologia nella loro vita e scuola e genitori non devono rinunciare al loro compito formativo e di guida anche in quest’ambito.

Ma quando introdurle?

Per capirlo ci facciamo aiutare da questi cartelloni disegnati da Maria Montessori per il corso di formazione tenuto a Perugia nel 1950. In essi aveva rappresentato in due modi diversi le fasi dello sviluppo del bambino: come piani e come un “bulbo” alle radici di una pianta. Ora le maestre Montessori potrebbero spiegarceli con dovizia di dettagli. Io mi vorrei invece concentrare sui due aspetti che mi hanno colpito.

Il primo riguarda l’etichetta posta sul bulbo per identificare il periodo fino ai sei anni: “formazione dell’uomo” o meglio, come diremmo oggi, “formazione della persona”. Maria Montessori sosteneva con molta chiarezza che i primi sei anni di vita sono il momento in cui i bambini esplorano il mondo che li circonda sviluppando così le basi dell’intelligenza. È in questi anni e soprattutto nei “mille giorni che contano”, i primi tre anni di vita, che si gettano i presupposti della personalità. In questo periodo…

“Il bambino impara attraverso la sua propria attività, e se gli viene data la possibilità di imparare attivamente sviluppa il suo carattere e la sua personalità” come Maria Montessori ricordava nel già citato “Introduction on the Use of Mechanical Aids”. Per questo…

… un bambino a passeggio perso nello schermo dello smartphone di mamma a guardare un cartone animato viene defraudato della possibilità di esplorare il mondo che lo circonda anche solo utilizzando i sensi. Una bella perdita, direi. Passiamo ora all’altro cartellone.

Per quello che ci interessa, attorno ai sei anni avviene un’importante conquista, quella dell’astrazione. Prima di quell’età il bambino fatica a distinguere ciò che è reale da ciò che esiste solo nella sua mente, come …

… questa bambina che asciuga le lacrime del protagonista di un videogioco. Scena tenera, ma che ci dà motivo di riflettere come certa tecnologia ci offra una visione “sotto vetro” di un mondo virtuale.

Questo e molto altro lo troverete nel mio libro “La pedagogia Montessori e le nuove tecnologie”. Libro cui Grazia Honegger Fresco ha scritto una bella prefazione. Su questa pagina troverete altre informazioni.

Ora passiamo dalla scuola alla famiglia. Che cosa possiamo fare per rendere la tecnologia digitale un nostro alleato per la crescita dei nostri figli?

La prima cosa è acquisire la consapevolezza del nostro rapporto con la tecnologia, degli effetti che ha sui nostri giovani. In questo libro l’autore cita a esempio i mondaci buddisti e quelli trappisti. Ambedue utilizzano la tecnologia digitale, frequentano reti sociali e navigano in rete, ma sempre sono consapevoli di questi strumenti e sanno che sono un mezzo, come la scodella del riso, e non il fine della loro vita.

Avere consapevolezza vuol dire innanzitutto conoscere. Quanto conosciamo, per esempio, …

… i videogiochi con cui i nostri figli passano il tempo? Abbiamo mai provato a giocare con loro? C’è da dire che molti adulti, soprattutto quelli un po’ più adulti, non vi si ritrovano perché manca loro l’esperienza oppure perché hanno provato a giocare con un qualche videogioco con risultati deludenti. Ma per i nostri figli sarà sì una fonte di divertimento, ma anche d’orgoglio perché possono insegnare ai genitori qualcosa che conoscono meglio di loro.

Poi dialogare con i figli. Qui andiamo oltre la tecnologia, ovviamente, ma a maggior ragione dobbiamo parlare con loro delle loro esperienze in questo mondo. I figli, anche se non lo ammetteranno apertamente, cercano la nostra guida per dare un senso alle loro esperienze anche in questo campo. Cerchiamo di non arrivare a che succeda qualcosa di irreparabile innescato dal frequentare social o quant’altro. Creiamo sempre un canale aperto e un ambiente di fiducia.

Infine non lasciamoli soli di fronte allo schermo. Questo non vuol dire controllarli. Il controllo è quanto più lontano dall’educazione. Fiducia e dialogo. E poi, quando abbiamo qualche problema informatico, chiediamo aiuto a loro. Sicuramente ne sanno più di noi e saranno orgogliosi di avere questo loro talento riconosciuto.

Tutto questo lo troverete nel libro “Le tecnologie digitali in famiglia: nemiche o alleate?” che ho appena finito di scrivere e che uscirà per l’editore “il leone verde” a breve, spero. Ho preparato intanto una pagina su cui trovate materiale riguardo al libro e che verrà aggiornata man mano che il libro procederà verso la pubblicazione.

Per concludere, non dimentichiamoci che possiamo collaborare con i nostri figli, ognuno contribuendo con quello in cui è bravo: loro con la scioltezza in campo tecnologico, noi con lo sguardo lungo sul perché, sulle implicazioni della tecnologia. Guidando così i nostri nativi digitali a conoscere veramente la tecnologia e a formarsi quella forte personalità che li preparerà a qualsiasi futuro.

E allora: “Buona strada!” come si augura nello scoutismo. E grazie per la vostra affettuosa attenzione.

 

Riferimenti utili

latd.com/blog/study-robots-inspire-new-learning-creativity-possibilities-kids
Le domande frequenti su Montessori (le cosiddette FAQ)mariovalle.name/montessori/faq.html
Mario Valle, “La pedagogia montessoriana e le nuove tecnologie”, Il leone verde (2017)mariovalle.name/montessori/libro-nuove-tecnologie
Mario Valle, “Le tecnologie digitali in famiglia: nemiche o alleate?”, Il leone verde (uscirà nel 2021)mariovalle.name/montessori/libro-tecnologia-e-famiglia
Alex Soojung-Kim Pang, “Dipendenza Digitale”, Edizioni LSWR (2015)www.edizionilswr.it/libri/dipendenza-digitale/
Latitude, “Robots Inspire New Learning & Creativity Possibilities for Kids”, (2012, gennaio).
Bronwyn Fryer, “How Do Innovators Think?” Harvard Business Review (2009)hbr.org/2009/09/how-do-innovators-think
Sir Ken Robinson, “Come sfuggire alla valle della morte dell’istruzione”, TED (2013)www.ted.com/talks/ken_robinson_how_to_escape_education_s_death_valley
Il Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS)www.cscs.ch
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