Mario Valle Web

La tecnologia digitale: nemica o alleata?

Quando si parla di tecnologie digitali e dell’effetto di tablet, smartphone e computer sulla crescita dei nostri figli, noi genitori oscilliamo fra paura e conseguenti divieti o accettazione incondizionata come “preparazione per il futuro”. Un futuro che però facciamo fatica a immaginare. Perché allora non chiedere aiuto?

In questo libro, da genitore qual sono, mi faccio aiutare dalla mia esperienza professionale in mezzo a supercomputer e tecnologie che stanno plasmando il nostro futuro e da una collega scienziata, Maria Montessori che, pur vissuta in altra epoca, ammirava le tecnologie del suo tempo e soprattutto conosceva la mente dei bambini e dei ragazzi dopo aver lavorato con loro per cinquant’anni.


Buonasera e grazie per essere qui in questa lezione a distanza come i vostri allievi o figli, …

… un utilizzo della tecnologia digitale entrato a gamba tesa nelle nostre vite, nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie. Del resto questo è il mondo d’oggi e il mondo futuro in cui vivranno i nostri figli e allievi. Un mondo digitale in cui già oggi …

… i nostri bambini e ragazzi, i nostri “abitanti del futuro”, sono immersi, qualsiasi cosa facciamo per limitarlo.

Ma cos’è la tecnologia digitale tema di questa chiacchierata? E perché è così importante? Qualche anno fa una vostra collega maestra decisamente burlona, rispose a un mio questionario riguardo a quali tecnologie metterebbe in una scuola scrivendo …

… “la lavatrice”. Ora non si può negare che una lavatrice sia una tecnologia, come lo sono la forbice, la matita e il forno a microonde.

Infatti, la tecnologia ha come oggetto l’applicazione e l’uso degli strumenti tecnici in senso lato, ossia di tutto ciò, come le conoscenze matematiche, informatiche, scientifiche, che può essere applicato alla soluzione di problemi pratici. Pensiamoci, quante tecnologie ormai non vediamo più? Decisamente una lavatrice risolve un problema pratico, ma oggi concentriamo l’attenzione solo sulla tecnologia digitale, che comprende…

… dispositivi con cui possiamo interagire come i desktop computer, i tablet, gli smartphone con le applicazioni che li rendono vivi e l’infrastruttura di comunicazione, la rete che li interconnette dandoci accesso al Web e alle reti sociali che la popolano. Ci interessa questa tecnologia per gli effetti profondi che ha sulle nostre vite e sulla crescita dei nostri giovani, cosa che la lavatrice non ha. Ah, avete notato l’immagine? È l’unica che ho trovato in cui c’è un uomo a riempire la lavatrice.

Di tecnologia digitale un po’ me ne intendo perché lavoro al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico di Lugano …

… in mezzo ad alcuni dei supercomputer più potenti al mondo …

… e dove lavoro con uno speciale tipo di bambini: gli scienziati che sono curiosi e inquisitivi come i bambini.

Ma sono soprattutto un papà. Un papà che a volte addirittura portava suo figlio in ufficio per “aiutarmi”. Mi sembrava, insomma, normale immergere i bambini nella tecnologia fin da piccoli.

Poi, parlando con i miei colleghi genitori di come nelle loro famiglie gestiscono le tecnologie digitali in mano ai figli, ho trovato che seguono differenti strategie. C’è chi le vieta del tutto, chi lascia fare, chi è orgoglioso delle supposte attitudini tecnologiche dei figli e chi teme che i figli perdano qualche opportunità fondamentale per il loro futuro se non ne hanno accesso. Forse la motivazione più razionale è quella di chi …

… reputa necessario immergerli nella tecnologia per “prepararli al futuro”. Peccato che il futuro celi un paradosso.

Spendiamo immani sforzi per essere pronti, noi e i nostri ragazzi, per un futuro che comunque …

… fatichiamo a immaginare. L’assurdo è che questo impegno convive con una scuola che funziona come se il mondo e gli allievi dovessero rimanere sempre come sono oggi, ma di questo parleremo un’altra volta. Fatichiamo a immaginare come sarà il mondo quando i nostri ragazzi usciranno dal sistema dell’istruzione. I nati quest’anno (2021) termineranno la scuola dell’obbligo fra 14 anni nel 2035 e si ritroveranno in un mondo molto diverso dal nostro popolato da 8 miliardi di persone, con la produzione di petrolio che inizia a ridursi, dove bisognerà convivere con il riscaldamento globale e dove l’acqua potabile sarà sempre più preziosa. Un mondo dove ci saranno professioni che oggi nemmeno immaginiamo e per le quali l’ufficio come concepito oggi non avrà più senso e dove le macchine ci avranno sostituito in un crescente numero di compiti. Del resto fare previsioni sul futuro non è mai stato facile.

In Blade Runner, film di fantascienza ormai diventato di culto, girano macchine volanti, intelligenze artificiali e replicanti, ma il protagonista per telefonare a Rachael, la replicante, usa una cabina telefonica. Il regista non riesce proprio a immaginare i telefonini. Poi non mancano esempi …

… di previsioni tecnologiche totalmente sballate come queste. Allora, che senso ha la difesa dell’accesso alla tecnologia come “preparazione per il futuro”?

Perché “tentare di prevedere il futuro è come cercare di guidare in una strada di campagna, di notte, senza luci e con lo sguardo fisso allo specchietto retrovisore” come scriveva Peter Drucker, conosciuto per le sue opere sulle teorie della gestione aziendale.

Forse la soluzione del dilemma è quella proposta da Alan Kay: “Il modo migliore per predire il futuro è inventarlo”, cosa che ha fatto in prima persona concependo, tra l’altro, i laptop e le interfacce grafiche moderne.

La cosa strana è che i migliori futurologi sono anche i meno ascoltati. Sono i bambini che a volte hanno delle intuizioni sul futuro che non sono messe a tacere da quello che crediamo di sapere sulla realtà, come noi adulti.

Lo hanno fatto, invece, con risposte degne dei migliori futurologi, nello studio Robots@School che ha chiesto a bambini di età compresa tra gli otto e i dodici anni di immaginare una situazione in cui i robot fossero parte integrante della quotidianità. Anche se alcuni bambini hanno assegnato ai robot sembianze da supereroi o comunque fantascientifiche, la maggior parte li ha immaginati come “compagni umanoidi” con cui potersi identificare e con cui poter fare amicizia. Oltre a mostrarci il futuro, quest’aspetto ci svela come i bambini e i ragazzi, a differenza di noi adulti, siano molto più interessati a cosa la tecnologia può fare “con loro” piuttosto che “per loro”. Teniamolo presente. Teniamo però ben presente che il bambino dovremmo ascoltarlo sempre, non solo in occasione di studi strutturati come questo.

Noi adulti invece consideriamo spesso il computer come carta e penna, solo più veloce, o come un accessorio necessario per l’ufficio che, tra l’altro, non è cambiato significativamente dagli anni sessanta.

Sono gli innovatori come questi bambini futurologi quelli che creeranno il futuro e chi di voi è insegnante li ha di fronte, a scuola e noi genitori attorno alla tavola da pranzo.

Ecco, quello che succede in famiglia avrà invece un impatto forte sulle loro capacità di innovare. Questo articolo, intitolato “Come pensano gli innovatori?” lo scrive chiaramente: “Crediamo anche che gli imprenditori più innovativi siano stati molto fortunati a essere cresciuti in un’atmosfera dove il porre domande era incoraggiato”. Vediamo qualche esempio.

Si citano spesso i fondatori di Google come esempio di innovatori che hanno rivoluzionato il mondo. Il bello è che non si citano praticamente mai le loro capacità tecnologiche, invece si dà risalto a come …

… abbiano imparato a essere auto-motivati, mettendo in discussione ciò che accade nel mondo, facendo le cose in un modo un po’ diverso. Loro due non sono però gli unici innovatori usciti da scuole Montessori. Da queste scuole è uscita gente che non solo ha trovato lavoro, ma ne ha pure creati di nuovi. Motivo in più per riconoscere le meravigliose capacità del bambino e avere fiducia in lui. Oppure…

… il pioniere dei videogiochi Will Wright, per cui …

… Montessori fu un “amplificatore d’immaginazione” che lo ha preparato per la creazione di The Sims, SimCity, Spore e Super Mario Brothers. “SimCity nasce direttamente da Montessori… Si tratta di puro apprendimento al tuo proprio ritmo”.

… Infine Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, che vi ha riversato quanto appreso alla scuola Montessori. Del resto lo riconosce anche …

… l’articolo che citavo: ”Un certo numero di imprenditori innovativi hanno anche frequentato scuole Montessori, dove hanno imparato a seguire la loro curiosità”.

… Ma se siamo stanchi di vedere esempi sono nel campo imprenditoriale e tecnologico, ecco un’altra ex-allieva Montessori, Julia Child. Cuoca, famosa tanto per il suo fantastico senso dell’umorismo quanto per le sue abilità culinarie, che ha attribuito alla sua educazione Montessori la nascita del suo amore per la scoperta, per il lavorare con le mani e la sua continua ricerca dell’eccellenza senza mai stancarsi di imparare nel vero senso montessoriano.

Anch’io avevo iscritto mio figlio alla scuola Montessori. Iscrizione sulla fiducia, devo dire, perché a quel tempo non conoscevo nulla di Montessori.

Lì avevo osservato un fenomeno per me inspiegabile. A scuola c’era un computer, ma i ragazzini non facevano la fila per utilizzarlo. La fila era invece davanti …

… a questa vecchia macchina da scrivere meccanica. Perché? Forse perché rispondeva ai loro bisogni interiori in quel momento? Chi senza capire critica il metodo Montessori dice che è vecchio e sorpassato. Non è vero e cercheremo di capire perché. Al contrario alcuni genitori, pochi per fortuna, …

… pensano che una tale scuola faccia di loro figlio un genio. Come scrisse Maria Montessori, non possiamo formare un genio, ma sappiamo che possiamo dare ai bambini un ambiente educativo che faccia crescere le loro potenzialità anche fino al livello di un genio, se il bambino ha questa capacità intrinseca. In una scuola Montessori, ho visto esattamente questo. Nessuna meraviglia che Maria Montessori fosse una scienziata.

Ma non solo conoscenze accademiche, nel mondo futuro dominato dalla tecnologia sono importanti dei tratti della personalità come la creatività, la capacità di collaborare, l’immaginazione.

E allora calza a pennello questo titolo che ho trovato qualche tempo fa: “Non abbiamo bisogno di insegnare ai nostri bambini come programmare, abbiamo bisogno di insegnar loro come sognare”. Un informatico che non sa immaginare la struttura del programma su cui sta lavorando, che non sa vedere le implicazioni del suo lavoro, rimarrà un programmatore, un operaio del software. Vogliamo formare della manovalanza informatica o persone che inventino la nuova “killer app”?

Lo stesso vale per le insegnanti. Scrive Montessori: “Il primo passo è l’auto-preparazione dell’immaginazione, perché la maestra montessoriana deve vedere un bambino che non esiste ancora, materialmente parlando, deve aver fede nel bambino che si rivelerà per mezzo del lavoro”.

Allora, che cosa serve ai ragazzi per affrontare il futuro? O meglio, per inventare il loro futuro?

Purtroppo la scuola tradizionale non aiuta a preparare per il futuro i nostri giovani, e aggiungere il coding non basta, secondo me.

Perché, secondo me, per prima cosa dobbiamo renderci conto che: “Le nuove economie richiedono un concetto di talento più complesso” e che: “L’istruzione non è un processo lineare di preparazione al futuro.” Come scrive il compianto Ken Robinson. È quello che vedo …

… nei miei colleghi. Ammetto che è un campione piuttosto piccolo e peculiare, ma può essere un assaggio di quelle caratteristiche che la scuola e l’educazione dovrebbero fornire. Innanzitutto non vedo attorno a me geni o furiosi matematici ma persone normali provenienti da svariate culture — arriviamo da una ventina di nazioni differenti — che hanno sempre voglia di imparare e non pretendono di sapere già tutto, sanno dove e come trovare le informazioni di cui hanno bisogno, sono capaci di navigare mentalmente architetture complesse e interagiscono, collaborano e contribuiscono alle comunità di utenti con cui operano. Alcuni poi vengono da percorsi scolastici assolutamente alieni alla tecnologia, ma con una passione per il mondo dei computer che li ha fatti arrivare qui.

Vedere i miei colleghi mi suggerisce che nel futuro non servirà la persona che sa tutto, anche perché nel mio campo la conoscenza tecnica diviene obsoleta nel giro di sei mesi. Questi “tuttologi”, come dice Hoffer, …

… saranno ben attrezzati per affrontare un mondo che non esiste più. La Linea Maginot era perfettamente preparata per un futuro che non si è verificato, anzi, sappiamo tutti come è andata a finire. Un mondo in cui gli analfabeti…

…non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non sapranno imparare, disimparare e imparare di nuovo, come grida Alvin Toffler nel suo libro “Lo Shock del Futuro”. Un bel po’ di anni prima…

…la Dottoressa sosteneva esattamente lo stesso. Non solo, …

… un’educazione che è solo mera trasmissione di conoscenze non ci porterà lontano nel futuro.

Allora, per capire che cosa può servire per prepararci al mondo tecnologico di domani,…

… partiamo da Maria Montessori e che cosa pensasse della tecnologia del suo tempo.

Innanzitutto notiamo che Maria Montessori non era estranea al mondo scientifico e tecnologico di quegli anni, come testimonia il suo curriculum scolastico. Infatti, dal 1883 frequentò a Roma la Regia Scuola Tecnica “M. Buonarroti” dove si diplomò nel 1886. Per continuare gli studi di matematica e di scienze, passò al Regio Istituto Tecnico “L. da Vinci” e, dopo essersi diplomata nell’autunno del 1890, si iscrisse alla “Facoltà di scienze fisiche, naturali e matematiche” dell’Università di Roma, dove conseguì la relativa licenza.

Quando divenne nota a livello internazionale, Maria Montessori era tenuta in alta considerazione dai principali scienziati e tecnologi del suo tempo. Fra i suoi sostenitori troviamo nientemeno che Thomas Alva Edison, probabilmente il più celebre tecnologo e imprenditore dell’epoca e…

… Alexander Graham Bell, che nel 1913 con sua moglie Mabel fondò la “Montessori Educational Association” nella loro casa a Washington, DC.

C’è un testo di Maria Montessori del 1947 intitolato “Introduction on the Use of Mechanical Aids” che probabilmente scrisse come prefazione a un libro indiano sulle tecnologie nella scuola. È riportato in un numero speciale dell’AMI Journal del 2015. L’introduzione ci dà un’idea di come Montessori considerasse la tecnologia: “Montessori era affascinata dalla tecnologia del suo tempo, che assolutamente la incantava e dove vedeva opportunità per unire il nostro mondo e un mezzo attraverso il quale una società mondiale interconnessa avrebbe potuto dare sostegno agli altri, e così far avanzare il genere umano”. Nel testo la Dottoressa rimarca …

… l’importanza che la tecnologia avrà nelle scuole, ma riafferma con forza che il primato, senza eccezioni, deve essere dato allo sviluppo del bambino completo e osserva come i mezzi tecnologici non sempre siano all’altezza del compito. La stessa accoppiata la troviamo nel suo libro …

Dall’infanzia all’adolescenza, dove loda le tecnologie del suo tempo, ma nelle stesse pagine …

… mette in guardia dal pericolo che l’uomo viva sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla. Per questo “bisogna che anche l’uomo si sviluppi”.

Da dove possiamo cominciare allora? Cominciamo da noi stessi, dal nostro rapporto con la tecnologia.

Una scena del genere, un papà che ogni minuto controlla la posta sullo smartphone, oppure un genitore perso in Facebook, che messaggio trasmettono? Per i nostri bambini, …

… se qualcosa lo fanno papa e mamma, allora è qualcosa di buono. Se stiamo incollati allo smartphone, anche loro lo saranno. Del resto l’imitazione è la loro più potente strategia di apprendimento, come lo è …

… per i cuccioli degli animali.

Poniamoci ora una domanda fondamentale: il cervello dei bambini d’oggi è diverso da quello dei bambini che studiava Maria Montessori? Sono un’evoluzione della nostra specie oppure no?

Renilde Montessori, nipote di Maria, in un’intervista del 1999 disse: “È molto difficile spiegare ai genitori che la specie umana è immutata da migliaia di anni, e che il bambino universale non cambia, malgrado i cambiamenti esteriori”. La scienza lo conferma. Il cervello umano non ha avuto il tempo di evolversi nel brevissimo arco di tempo in cui abbiamo potuto affidarci alle tecnologie. Anche la scrittura, una tecnologia di tutto rispetto, è avvenuta in un battito di ciglia su scala evolutiva.

Ma è altrettanto certo che con l’esercizio il cervello cambia. Le aree predisposte al controllo delle dita di un pianista si ingrandiscono man mano che si esercita. O come in questo studio che dimostra come anche la materia bianca, le fibre avvolte nella mielina, si espande con l’esercizio. È pure ovvio che alla stessa maniera il cervello umano viene quotidianamente modificato dall’uso di smartphone e tablet, in particolare dal rapido e frequente movimento delle dita sullo schermo. Dacché è lo stesso tipo di modifica del cervello dovuta all’esercizio, non lo definirei un effetto legato alla tecnologia e nemmeno un’evoluzione del cervello.

Un segno di questi cambiamenti nel cervello è certamente l’effetto Flynn, l’aumento del quoziente intellettivo (QI) medio della popolazione, osservato da James Flynn nel corso degli anni, con una crescita attorno ai tre punti per ogni decennio. L’effetto deriva molto probabilmente da una maggiore capacità di risolvere problemi logici e astratti, frequenti nell’ambiente sociale e culturale odierno.

Tutto bene, quindi? Non proprio, perché…

…dal 1990 l’effetto si sta invertendo, come ha scoperto uno studio del 2008. Ancor peggio, a declinare non sono solo le capacità intellettive, è anche …

… la creatività (almeno negli Stati Uniti).

L’ovvia conclusione sembra inevitabile: “Nel processo evolutivo qualche meccanismo deve essersi inceppato.”

…Visti questi effetti del mondo tecnologico sulla mente umana, è facile per i media sparare titoli a effetto, come “La demenza digitale” o “Google ci sta rendendo stupidi?” oppure dire tutto e il contrario di tutto sulle conseguenze o sui benefici della tecnologia a scuola, mentre ignorano le ricerche scientifiche più serie. La realtà è che gli scienziati non sanno bene quali siano gli effetti a lungo termine delle tecnologie sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo e sulla costruzione della propria identità. Problema complicato dal fatto che la “tecnologia” non è un’entità unica e quindi è difficile pensare che abbia un unico effetto.

Allora è meglio se torniamo a considerare …

… i rapporti tra mente e tecnologia. Cominciamo dalla più ovvia: il movimento.

“Hanno bisogno di sfogarsi” sentenzia la nonna, “ci fanno diventare pazzi” si lamenta il genitore, “mi sgolo e loro no, non stanno mai fermi” si sfoga la maestra. Ma è proprio un’attività così reprensibile? No, assolutamente no. Il movimento è parte integrante delle nostre capacità cognitive e base dello sviluppo della mente.

Ed è alla base anche del genio di un Premio Nobel. Sebbene il lavoro computazionale e la scienza siano per lo più attività sedentarie e intellettuali, sono anche processi fisici, come riporta James Gleick riferendosi al modo di pensare di Richard Feynman. Quindi movimento fisico e intelletto sono strettamente legati.

In campo neuroscientifico, prima di accettare tutto questo, ci sono voluti molti studi che hanno rivalutato la funzione e l’importanza delle aree motorie nella fisiologia del cervello. Studi che hanno dimostrato come “lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende”, come sintetizza nel libro “So quel che fai” Giacomo Rizzolatti, lo scopritore dei neuroni specchio, di cui parleremo fra poco.

Assieme a lui molti scienziati hanno collegato lo sviluppo cerebrale a quello motorio: Adele Diamond per cui “lo sviluppo motorio e lo sviluppo cognitivo possono essere fondamentalmente interconnessi”, Cotterill che dimostra come “la cognizione è inestricabilmente collegata al movimento, sia in forma visibile che nascosta”, Koziol e Budding per i quali “la cognizione è realmente solo un’estensione del sistema motorio”.

… Maria Montessori aveva capito la stretta connessione del movimento con lo sviluppo della mente esattamente cinquant’anni prima di Rizzolatti. Attenzione però! Non stiamo parlando di un qualsiasi movimento, né della classica ora di educazione fisica. Perché il movimento nel Montessori ha carattere autonomo, ma non è mai fine a sé stesso, perché sviluppa la mente e il corpo grazie ad attività finalizzate che impegnano l’intera persona in un lavoro costruttivo.

E qui dov’è il movimento? Ci sarà pure tanta tecnologia, ma il movimento essenziale allo sviluppo manca totalmente. Il movimento ha anche un’altra strana connessione col pensiero.

Poco tempo fa è uscito uno studio sulla prestigiosa rivista Science che mostra come utilizziamo gli stessi meccanismi del cervello – Place e Grid cells – che utilizziamo per conoscere dove ci troviamo in un ambiente per creare delle mappe dei nuovi concetti quando li acquisiamo e per muoversi fra di loro quando pensiamo.

Anche la memoria ha un inaspettato collegamento con il movimento.

Vi ricordate il metodo mnemonico dei loci? Cicerone è stato uno dei più celebri utilizzatori di questa tecnica. Associava alle stanze di un palazzo le varie parti dei suoi discorsi e poi percorreva il palazzo nella sua mente quando doveva esporlo. Così fa ancor oggi l’atleta della memoria Nelson Dellis per ricordare l’ordine casuale di un mazzo di carte.

Se ora veniamo allo sviluppo del cervello, vediamo in questo filmato che riprende un cervello tra i quattro e i vent’anni, che non si sviluppa uniformemente. I processi in azione sono la nascita di nuove sinapsi, collegamenti fra neuroni, che aumentano a ritmo vertiginoso fino a circa …

… due-tre anni. Poi inizia una fase di potatura, di eliminazione di sinapsi e circuiti neurali, che termina dopo aver eliminato, in maniera dipendente dalle esperienze vissute, il 40% delle sinapsi nell’adolescenza. Anche questo processo non avviene in maniera uniforme in tutte le aree della corteccia.

L’altro processo importante per la maturazione del cervello è la mielinizzazione, la creazione di uno strato isolante che cambia la loro velocità di trasmissione da 0.25 m/s a 70-80 m/s.

I processi biologici di maturazione non uniforme del cervello fanno sì che ci siano dei periodi speciali in cui una certa funzionalità si sviluppa.

Oggi la scienza ha confermato l’esistenza di questi “periodi critici”, periodi in cui l’azione dell’esperienza si traduce in modificazioni irreversibili dei circuiti e delle funzioni del sistema nervoso. In altre parole sono periodi in cui sono presenti delle temporanee sensibilità o guide interiori che indirizzano il bambino verso taluni segnali, lasciandolo indifferente ad altri. I gesti e l’esperienza modificano quindi la sua biologia, cosa che non accadrà più se non nell’infanzia che diviene così un’opportunità, una finestra critica per far sbocciare il potenziale enorme nascosto nei nostri piccoli.

Maria Montessori, osservando i bambini come sempre faceva, aveva scoperto l’esistenza di questi particolari periodi che lei chiamava “periodi sensitivi” e di come “il loro attuarsi può solo compiersi attraverso una libera azione sull’ambiente”.

Non esiste il periodo sensitivo della tecnologia. Anzi, se interferisce con i periodi sensitivi propri del cervello del bambino, può far perdere quel “treno che passa a quell’ora” e che poi è molto difficile recuperare. Ne vale la pena?

Manfred Spitzer, nel suo libro dal titolo poco rassicurante, cita i tassisti londinesi che devono imparare a memoria le 25.000 vie di Londra e hanno l’ippocampo molto ingrandito come esempio dell’importanza di imparare a memoria e non affidarsi ai motori di ricerca. Quello che non dice, però, è che questi tassisti hanno minori capacità di manipolare modelli in 3D nella loro mente. L’altra cosa che non dice è che oggi utilizziamo una memoria che è sempre esistita: …

… la memoria transattiva. Questa è una memoria che non ha a che fare con le informazioni in sé, ma con il sapere come e dove trovarle. Non è però una memoria nata con la tecnologia perché da sempre, oltre che aiutandoci con agende e Post-it, usiamo anche le altre persone come archivi di memoria transattiva. Chiediamo al collega anziché cercare la risposta sulla rete aziendale, o ci appoggiamo al coniuge per ricordare dove abbiamo parcheggiato la macchina o dove è conservata quella camicia così elegante. Lo stesso succede per quelle informazioni, come il tempo di cottura della pasta, di cui non avremo mai bisogno, a meno di non avere la scatola tra le mani quando stiamo cucinando gli spaghetti.

Saltiamo ora agli oggetti concreti. Lo psicologo statunitense James Gibson, in un suo libro del 1979, ha introdotto il termine affordance per identificare la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo. L’esempio più evidente è il manico di una brocca che ci invita a prenderla proprio da lì senza bisogno di istruzioni o di allenamento. Insomma, le affordance sono una specie di “invito ad agire”. Un invito che ha una base neuronale, perché vedere un oggetto evoca automaticamente che cosa potremmo fare con esso attraverso l’attivazione di una particolare classe di neuroni, i cosiddetti neuroni canonici. Questi neuroni rispondono alla semplice osservazione di un oggetto, indipendentemente se ci sia o no l’intenzione di agire, per esempio per afferrarlo.

Così fanno i materiali Montessori che offrono chiarissime affordance. Montessori le chiamava la “voce delle cose” e c’era arrivata cento anni prima di Gibson. Tanti oggetti di uso quotidiano ci offrono affordance ben chiare.

Ma quali affordance offre un tablet?

Don Norman, esperto di interazione uomo-macchina, ci fa osservare che molti dei modi con cui interagiamo con la tecnologia informatica non sono affordance, sono convenzioni apprese. Il tablet o lo schermo del computer non ci invitano ad agire, semmai ci invitano a considerare una delle convenzioni, come per esempio il cursore che cambia forma quando si è su qualcosa che si può cliccare o l’icona della lente d’ingrandimento che ci suggerisce di cercare.

Una sentenza inappellabile sulle tecnologie touch viene da Bret Victor, progettista di interfacce innovative e studioso del futuro della tecnologia, che le definisce “Immagini Sotto Vetro” che offrono “un paradigma di interazione da intorpidimento permanente. Si tratta di una flebo di novocaina al polso. Esso nega alle nostre mani quello che sanno fare meglio. Che cosa si può fare con queste «Immagini Sotto Vetro»? È possibile farle scorrere. Questo è il gesto fondamentale in tale tecnologia. Scorrere un dito lungo una superficie piatta. Non c’è quasi nulla nel mondo naturale che manipoliamo in questo modo”. Bret continua citando il neuroscienziato Matti Bergström: “La densità di terminazioni nervose sulla punta delle dita è enorme. La loro capacità di discriminazione è quasi buona quanto quella dei nostri occhi. Se non usiamo le dita, se durante l’infanzia e la gioventù si diventa ciechi-sulle-dita (finger-blind), questa ricca rete di nervi si impoverisce, il che rappresenta una perdita enorme per il cervello e ostacola lo sviluppo a tutto tondo dell’individuo. Tale danno può essere paragonato alla cecità vera e propria. Forse peggio, perché un cieco potrebbe semplicemente non essere in grado di trovare questo o quell’oggetto, mentre il cieco-sulle-dita non può capire il suo significato e valore intrinseco”. (A Brief Rant on the Future of Interaction Design). La frase di Bergström è citatissima soprattutto nelle pubblicazioni delle scuole Waldorf-Steiner dedicate alle attività manuali, ma rimane sconosciuto il riferimento originale. Per complicare le cose, Matti Bergström è presente solo nelle versioni in lingue nordiche di Wikipedia.

Qui, invece, pur in assenza di tecnologia, c’è movimento, c’è l’uso delle mani e c’è un altro effetto interessante evidenziato in un esperimento psicologico di Shepard e Metzler.

Questi psicologi hanno dimostrato che noi manipoliamo le rappresentazioni mentali come se fossero oggetti fisici. Come se ne sono accorti? In un quiz come quello qui riportato, dove bisogna trovare a quale oggetto della riga in basso corrisponde quello in alto, il tempo impiegato per stabilire se una coppia è formata dallo stesso oggetto è proporzionale all’angolo che c’è fra i due oggetti. (Nel problema indicato, alla configurazione in alto corrisponde l’oggetto B).

Manipolare strutture con le mani ha anche un altro effetto analizzato …

… in uno studio che lega la comprensione matematica all’abilità nel copiare e ricostruire strutture LEGO. Perché? Perché anche un compito semplice come questo implica la capacità di manipolare strutture nella mente. E la matematica è la scienza delle strutture e degli schemi, come recita una definizione moderna.

Passiamo a un altro aspetto. In una scuola Montessori i bambini si muovono. Quello che vedete qui è abbastanza comune. Invece, in una scuola tradizionale l’insegnante avrebbe sicuramente tuonato: “Torna al tuo banco! Stai perdendo tempo e disturbi gli altri!” Ma la bambina che sta a guardare qui sta lavorando sodo, come ci dice una scoperta neurofisiologica degli anni ‘90, …

… quella dei neuroni specchio. Questi neuroni sono neuroni motori che si attivano quando compiamo un’azione, ma anche quando guardiamo la stessa azione compiuta da altri. Ciò significa che quando guardiamo un’azione stiamo davvero simulando la stessa azione internamente.

Per questo, in un gruppo multi-età come quello che vediamo qui, il bambino vestito di giallo sta davvero lavorando e apprendendo già solo muovendosi fra gli altri bambini e imitandoli internamente.

Con certa tecnologia, dove sono i gesti da imitare? Ridurli a tap e swipe toglie al bambino una poderosa forma di apprendimento.

Passiamo al linguaggio, croce e delizia di tanti insegnanti delle elementari. Il linguaggio scritto è un’invenzione recente, perché la scrittura è nata circa 5000 anni fa in Mesopotamia. Un tempo troppo breve perché si evolvano strutture specifiche nel cervello.

Il neuroscienziato Stanislas Dehaene ha studiato come il cervello apprende a leggere e scrivere ed è giunto alla conclusione che il cervello umano non ha evoluto nuovi circuiti perché non ne ha avuto il tempo, ma ha dovuto e ancora oggi ogni volta deve daccapo creare sofisticati collegamenti tra strutture neuronali in origine preposte ad altri più basilari processi, come la vista e la comprensione della lingua parlata. Dehaene chiama questo processo: “Riciclaggio neuronale”.

Quando s’impara a leggere, il cervello crea connessioni tra le aree visive, linguistiche e concettuali che fanno parte del nostro patrimonio genetico, ma che in precedenza non erano mai state intessute insieme per questo scopo. Quando leggiamo, si attiva per prima l’area visiva, poi il riconoscimento delle forme, poi l’area della parola “pronuncia” ciò che abbiamo letto e solo allora il cervello accede al significato della parola. Un processo meraviglioso. Un processo che si prepara con compiti che non sembrano essere esclusivamente legati alla lettura. Dehaene nel suo libro cita, ad esempio, una ricerca…

… che ha dimostrato come l’esplorazione delle lettere con le dita nei bambini piccoli incrementa la comprensione delle lettere stesse e quindi delle parole. Un bel po’ prima del 2004 c’era già arrivata…

… Maria Montessori con le sue lettere smerigliate…

… e con tanti altri esercizi che preparano alla scrittura. Altro che arretrata!

C’è poi la differenza abissale tra tastiera e penna su carta, ma anche su tablet. Secondo una ricerca condotta da neurofisiologi norvegesi e francesi, la scrittura a mano attiva molte più aree cerebrali rispetto alla digitazione su tastiera, perché gli occhi e la mano partecipano al processo di creazione della lettera, cosa che invece non accade quando si preme semplicemente un tasto. È sorprendente poi scoprire che nel semplice comporre una lettera sul foglio si attivano aree che a un primo sguardo non c’entrano nulla con la scrittura. Uno studio di Karin James dell’Università dell’Indiana a Bloomington, mostra appunto come nei bambini di cinque anni si attivino i circuiti cerebrali dedicati alla lettura quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera.

Il secondo motivo per preferire la scrittura manuale a quella su tastiera è che migliora l’identificazione di singole lettere e la memorizzazione di parole intere poiché le fini attività motorie che la compongono contribuiscono al riconoscimento delle lettere stesse e di conseguenza delle parole. Lo stesso risultato si ottiene scrivendo sul tablet con uno stilo, ma non quando si scrive sullo schermo usando le dita.

Torniamo al buon vecchio libro, che ha un peso, una forma, occupa dello spazio e ci invita a utilizzarlo con il muto linguaggio delle affordance.

Quando ci ricordiamo di un brano in un libro, spesso lo visualizziamo in base alla sua posizione nella pagina. Gli angoli di un libro aperto funzionano come punti di riferimento e rinforzano quel tipo di ricordi. Possiamo girare in fretta le pagine per confrontare due porzioni di testo, o per saltare avanti dando solo una rapida occhiata. Lo spessore del libro, diviso tra pagine lette e ancora da leggere, ci aiuta a formare una mappa mentale coerente del testo e dà un senso della posizione più solido di una semplice barra di avanzamento.

Tutti questi aiuti sono assenti quando leggiamo su un tablet oppure con un lettore di libri digitali.

Quello che ci confonde è che trasferiamo ai giovani in crescita le esigenze di produttività del mondo adulto. Ma dimentichiamo che …

… i bambini non sono adulti in miniatura.

Non usano la mente come l’adulto ma di meno. Il bambino usa la mente con modalità sue proprie. Rispetto agli adulti i bambini hanno già tutte le abilità necessarie per essere scienziati geniali: immaginazione, curiosità, perseveranza, adattabilità, passione. Fanno domande, non conoscono la parola “impossibile” e non hanno paura di esplorare e magari fallire. Insomma, sono il dipartimento “Ricerca e Sviluppo” della specie umana, mentre noi adulti siamo relegati al reparto “Produzione”. Questa è la ragione per cui Alison Gopnik definisce il bambino “lo scienziato nella culla”, uno scienziato che formula ipotesi e mette in atto strategie per metterle alla prova.

Sul fatto che si debba introdurre la tecnologia ai più giovani ci sono pochi dubbi; se ci fosse bisogno di una conferma, già nel 1947 Maria Montessori scriveva: “Credo tuttavia che l’introduzione di ausili meccanici diventerà una necessità generale nelle scuole del futuro”. Non tanto per potenziare l’apprendimento, ma perché i bambini sono sommersi dalla tecnologia nella loro vita e scuola e genitori non devono rinunciare al loro compito formativo e di guida anche in quest’ambito.

Ma quando introdurle?

Per capirlo ci facciamo aiutare da questi cartelloni disegnati da Maria Montessori per il corso di formazione tenuto a Perugia nel 1950. In essi aveva rappresentato in due modi diversi le fasi dello sviluppo del bambino: come piani e come un “bulbo” alle radici di una pianta. Ora le maestre Montessori potrebbero spiegarceli con dovizia di dettagli. Io mi vorrei invece concentrare sui due aspetti che mi hanno colpito.

Il primo riguarda l’etichetta posta sul bulbo per identificare il periodo fino ai sei anni: “formazione dell’uomo” o meglio, come diremmo oggi, “formazione della persona”. Maria Montessori sosteneva con molta chiarezza che i primi sei anni di vita sono il momento in cui i bambini esplorano il mondo che li circonda sviluppando così le basi dell’intelligenza. È in questi anni e soprattutto nei “mille giorni che contano”, i primi tre anni di vita, che si gettano i presupposti della personalità. In questo periodo…

“Il bambino impara attraverso la sua propria attività, e se gli viene data la possibilità di imparare attivamente sviluppa il suo carattere e la sua personalità” come Maria Montessori ricordava nel già citato “Introduction on the Use of Mechanical Aids”. Per questo…

… un bambino a passeggio perso nello schermo dello smartphone di mamma a guardare un cartone animato viene defraudato della possibilità di esplorare il mondo che lo circonda anche solo utilizzando i sensi. Una bella perdita, direi. Passiamo ora all’altro cartellone.

Per quello che ci interessa, attorno ai sei anni avviene un’importante conquista, quella dell’astrazione. Prima di quell’età il bambino fatica a distinguere ciò che è reale da ciò che esiste solo nella sua mente, come …

… questa bambina che asciuga le lacrime del personaggio televisivo. Scena tenera, ma che ci dà motivo di riflettere come certa tecnologia ci offra una visione “sotto vetro” di un mondo virtuale.

Una recente ricerca dal titolo piuttosto buffo “Ehi Google, va bene se ti mangio?” esplora come i bambini reagiscono di fronte a un assistente vocale — Alexa o Google Echo, per esempio — mostrando quanto sia importante l’acquisizione di questa capacità di astrazione. La ricerca mostra che per i bambini sotto ai 10 anni l’idea che un assistente vocale sia una macchina non è chiarissima. I bambini tendono a sovrastimare le capacità delle macchine, perché quando vedono un robot capace di fare calcoli in maniera infinitamente più veloce di loro è facile rimanerne impressionati. I più piccoli potrebbero quindi rischiare di farsi influenzare nei loro comportamenti dai consigli di una macchina tanto quanto si farebbero influenzare dai consigli dei genitori.

Questo e molto altro lo trovate nel mio libro “La pedagogia Montessori e le nuove tecnologie”. Libro cui Grazia Honegger Fresco ha scritto una bella prefazione. Su questa pagina troverete altre informazioni.

Un ultimo punto per me importantissimo è l’acquisire la capacità di legare le discipline. Ecco un esempio. L’ingegnere svizzero George De Mestral dopo essere andato a caccia, era stufo di togliere i frutti uncinati della bardana dai suoi pantaloni. Tuttavia, non liquidò questo fatto come una mera seccatura, invece iniziò a osservarli con attenzione e curiosità e nacque il Velcro.

Invece troppo spesso che cosa succede? Si seguono con ostinazione percorsi ben conosciuti senza la minima deviazione o, peggio, come osservava Winston Churchill, “la maggior parte degli uomini inciampa su grandi scoperte. Ma molti di loro si rialzano e se ne vanno”. La maggior parte delle persone passa oltre questi collegamenti, non li vede, perché, magari, non ha mai avuto un’insegnante che facesse comprendere loro l’importanza di trovare connessioni tra le idee, che allargasse i loro orizzonti. E non conta l’immensa quantità di informazioni che abbiamo a disposizione sulla rete. Se non abbiamo la curiosità di esplorarle, se non siamo capaci di trovare connessioni e relazioni, la tecnologia non serve a nulla.

Tutto questo è fondamentale in ambito scientifico e nel mondo post-industriale che ci attende. Nel mio lavoro mi sono reso conto che le varie discipline scientifiche non sono alberi isolati; sono una fitta foresta attraversata da sentieri inaspettati. Da quello che ho visto posso dire che le scoperte più entusiasmanti avvengono spesso sul confine fra discipline differenti. Qualche anno fa ho collaborato con chimici teorici, cristallografi computazionali e scienziati sperimentali esperti delle altissime pressioni, cinesi, russi e tedeschi. Insieme abbiamo scoperto e verificato sperimentalmente un comportamento assolutamente inaspettato del sodio. Uno studio che si è guadagnato un posto sulla prestigiosa rivista Nature. Pensate, il mio contributo prendeva le mosse nientemeno che da un metodo utilizzato nelle biblioteche, nulla a che vedere con la cristallografia o la chimica.

Chi può accendere tutto questo nell’animo di un giovane bambino? Ce lo suggerisce una fonte del tutto inaspettata, uno dei motori della rivoluzione digitale: …

… Steve Jobs. In un’intervista dell’aprile 1995 gli fu chiesto: “Alcuni dicono che questa nuova tecnologia può essere un modo per aggirare questi [problemi della scuola]. Sei ottimista al riguardo?” Jobs rispose: “Io non lo credo per niente. Come hai sottolineato tu ho aiutato con più computer in più scuole di chiunque altro al mondo e sono assolutamente convinto che non sia affatto la cosa più importante. La cosa più importante è la persona. Una persona che suscita e alimenta la vostra curiosità; e le macchine non possono farlo nello stesso modo in cui possono le persone” (Daniel Morrow, Excerpts from an Oral History Interview with Steve Jobs).

Che cosa possiamo fare allora? A mio avviso e oltre questo periodo d’emergenza che stiamo vivendo, invece di affidarci ciecamente alla tecnologia come se fosse la cura di tutti i mali, seguiamo il consiglio che ci dava …

… Montaigne cinquecento anni fa. Formiamo e cresciamo persone che abbiano una testa ben fatta piuttosto che ben piena.

E per le famiglie, per usare al meglio la tecnologia digitale tra le mura domestiche? Sta uscendo…

… il mio nuovo libro “Le tecnologie digitali in famiglia: nemiche o alleate?” pubblicato da “il leone verde” e che potete già prenotare, mi hanno detto. Intanto ho preparato una pagina su cui trovate materiale riguardo al libro e che verrà aggiornata man mano che il libro procederà verso la pubblicazione.

In famiglia la parola chiave è “consapevolezza”. Consapevolezza del nostro rapporto con la tecnologia, degli effetti che ha sui nostri giovani. In questo libro l’autore cita a esempio i mondaci buddisti e quelli trappisti. Ambedue utilizzano la tecnologia digitale, frequentano reti sociali e navigano in rete, ma sempre sono consapevoli di questi strumenti e sanno che sono un mezzo, come la scodella del riso, e non il fine della loro vita.

Avere consapevolezza vuol dire innanzitutto conoscere. Quanto conosciamo, per esempio, …

… i videogiochi con cui i nostri figli passano il tempo? Abbiamo mai provato a giocare con loro? C’è da dire che molti adulti, soprattutto quelli un po’ più adulti, non vi si ritrovano perché manca loro l’esperienza oppure perché hanno provato a giocare con un qualche videogioco con risultati deludenti. Ma per i nostri figli sarà sì una fonte di divertimento, ma anche d’orgoglio perché possono insegnare ai genitori qualcosa che conoscono meglio di loro.

Poi dialogare con i figli. Qui andiamo oltre la tecnologia, ovviamente, ma a maggior ragione dobbiamo parlare con loro delle loro esperienze in questo mondo. I figli, anche se non lo ammetteranno apertamente, cercano la nostra guida per dare un senso alle loro esperienze anche in questo campo. Cerchiamo di non arrivare a che succeda qualcosa di irreparabile innescato dal frequentare social o quant’altro. Creiamo sempre un canale aperto e un ambiente di fiducia.

Infine non lasciamoli soli di fronte allo schermo. Questo non vuol dire controllarli. Il controllo è quanto più lontano dall’educazione. Fiducia e dialogo. E poi, quando abbiamo qualche problema informatico, chiediamo aiuto a loro. Sicuramente ne sanno più di noi e saranno orgogliosi di avere questo loro talento riconosciuto.

Per concludere, non dimentichiamoci che possiamo collaborare con i nostri figli e i nostri allievi, ognuno contribuendo con quello in cui è bravo: loro con la scioltezza in campo tecnologico, noi con lo sguardo lungo sul perché, sulle implicazioni della tecnologia. Guidando così i nostri nativi digitali a conoscere veramente la tecnologia e a formarsi quella forte personalità che li preparerà a qualsiasi futuro.

E allora: “Buona strada!” come si augura nello scoutismo. E grazie per la vostra affettuosa attenzione.

 

Riferimenti utili

latd.com/blog/study-robots-inspire-new-learning-creativity-possibilities-kids
Le domande frequenti su Montessori (le cosiddette FAQ)mariovalle.name/montessori/faq.html
Mario Valle, “La pedagogia montessoriana e le nuove tecnologie”, Il leone verde (2017)mariovalle.name/montessori/libro-nuove-tecnologie
Mario Valle, “Le tecnologie digitali in famiglia: nemiche o alleate?”, Il leone verde (uscirà nel 2021)mariovalle.name/montessori/libro-tecnologia-e-famiglia
Alex Soojung-Kim Pang, “Dipendenza Digitale”, Edizioni LSWR (2015)www.edizionilswr.it/libri/dipendenza-digitale/
Latitude, “Robots Inspire New Learning & Creativity Possibilities for Kids”, (2012, gennaio).
Bronwyn Fryer, “How Do Innovators Think?” Harvard Business Review (2009)hbr.org/2009/09/how-do-innovators-think
Sir Ken Robinson, “Come sfuggire alla valle della morte dell’istruzione”, TED (2013)www.ted.com/talks/ken_robinson_how_to_escape_education_s_death_valley
Il Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS)www.cscs.ch
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